… della quale avete avuto notizia qui sotto, si è conclusa ieri sera, 8 luglio 2018, alle ore 23 30. Le due giornate piene di eventi mi hanno lasciato l’amaro in bocca e, se ho capito bene le parole, i gesti, gli atteggiamenti di chi era seduto, come me, nel teatro comunale di Zocca, ha lasciato l’amaro in bocca anche agli altri spettatori.
Bene, così deve essere!
Nella mia lunga carriera di scrittore ho partecipato a un numero infinito di festival e tutti, ma proprio tutti, sono terminati e terminano con il sorriso sulle labbra degli organizzatori, degli scrittori e dei lettori che assistono agli eventi.
Deduzione personale (da non condividere): non servono a nulla se non agli scrittori per farsi vedere e per raccontare come siano bravi e quanto siano fortunati coloro che hanno la ventura di assistere e di ascoltarli.
I due giorni della Festa Cantiere ZoccaNoir hanno raccontato delle assaggiatrici di Hitler (Rosella Postorino); di come, nella nostra società, sia inutile arrivare alle verità investigative e processuali (il sottoscritto). Hanno ricordato ai presenti che il noir ha tante sfaccettature e tutte provocatorie (Marco Malvaldi); che il ’68 si è lasciato dietro un mucchio di ossa, di droga, di profittatori, di anni di piombo… (Sandrone Dazieri e Tommaso De Lorenzis) dei quali stiamo ancora pagando gli effetti.
Hanno potuto vedere, i partecipanti alle due giornate, una sfilata di foto storiche di eventi che nessuno ormai ricorda più (Luciano Nadalini) e per questo non solo risultano oggi inutili, ma sono stati drammatici per chi li ha vissuti e spesso, purtroppo, dimenticati.
Si sono interrogati sull’installazione dell’artista Silvia Cocci Grifoni e ognuno si è data la risposta che il proprio vissuto e la propria cultura suggeriva, ma è rimasto il dubbio. Dubbio che non hanno avuto i due che in quella stessa sala dovevano sposarsi. Hanno dato un’occhiata all’opera, l’hanno interpretata e subito deciso: via quella cosa o qui non ci sposiamo. Più o meno.
Brava Silvia Cocci Grifoni.
Quando l’arte è più forte dell’amore. Ovvero: tempo oscuri quando l’arte fa paura.
Le testimonianze indirette delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, portate sul palco in chiusura della Festa Cantiere da narratori, con la ricerca storica di Cinzia Venturoli e la regia di Matteo Belli, sono state la degna conclusione di due giorni di riflessione.
Ce ne siamo andati, come ho scritto sopra, con l’amaro in bocca al pensiero di quegli 85 morti e del grande numero di feriti che ancora aspettano. E con alcune consapevolezze: ancora non sappiamo chi abbia pensato e progettato la strage; gli esecutori sono liberi di passeggiare sotto i portici di Bologna e di guardare in faccia i parenti delle vittime con la stessa arroganza e con gli stessi sorrisi ironici e prepotenti che mostravano durante i processi.
Era la consapevolezza che non avrebbero mai trascorso in carcere i numerosi ergastoli comminati dal tribunale?
Dovremmo pretendere una risposta.
Ultima considerazione.
La commozione che ha preso gli spettatori durante le testimonianze, compresa quella, tesa e consapevole, di Agide Melloni (l’autista dell’autobus 37) mi ha fatto capire che la teoria dello straniamento brechtiano non solo è funzionale allo spettacolo ma serve allo spettatore per trasferire le sensazioni dal cuore al cervello.
loriano macchiavelli
9 luglio 2018, ore 10.