La scuola emiliana del noir
Piero del Giudice per Galatea (2002)
Domanda: Esiste, a Suo parere, una “scuola emiliana” del noir?
Personalmente non amo le etichette perché semplificano tutto e lasciano il tempo che trovano, cioè il brutto tempo. Parlare di scuola emiliana del noir è come parlare di nulla. Cosa significa? Se significa che un certo gruppo di scrittori ha qualcosa in comune nella propria scrittura, direi proprio che non è il nostro caso. E poi, cos’è una scuola letteraria? Un luogo, un’idea, un modo di scrivere? Sarebbe pazzesco se tutti gli scrittori di giallo che gravitano attorno a Bologna, e sono veramente tanti, fossero unificati da una di queste possibilità. Pensate un po’ che monotonia.
Domanda: Il “Gruppo 13” perché nasce, con quali prospettive e intenzioni? Che funzione ha avuto, a Suo parere, questo “gruppo” di letteratura di genere?
Il Gruppo 13 è stata un’esperienza riuscita, dopo altri tentativi di raggruppare gli scrittori italiani di giallo, tentativi che iniziano nel 1980, a Cattolica, con il SIGMA (Scrittori Italiani del Giallo e del Mistero Associati). Poi io e alcuni altri volonterosi abbiamo provato nel 1984 con il Gruppo 8. C’erano, oltre al sottoscritto, Perria, Olivieri, Veraldi, Anselmi, Enna, Russo, Signoroni. Qualcosa è sempre andato storto. Nel Gruppo 13 mi sono trovato a lavorare assieme a giovani pieni di entusiasmo, di idee e di voglia. Giovani che erano alle prime esperienze e oggi sono… dove sono. Lo sapete tutti. In linea del tutto teorica, il Gruppo 13 esiste perché ancora, di tanto in tanto, ci si incontra, si discute, si presentano libri… Ma è giusto che ognuno sia andato per la sua strada. Non era una scuola, non era una congrega: erano amici che credevano in quello che facevano e lo hanno fatto. Bene, secondo me.
Domanda: Lei molto chiaramente scrive nei Suoi libri e in quelli messi a punto insieme a Guccini di una Bologna degradata, corrotta, teatro e scena di una società sbandata. Per quali ragioni la città di Dozza, la città delle esemplari amministrazioni “rosse”, il capoluogo dell’anomalia positiva italiana è, in qualche decennio, così mutata?
Mi pare che sia mutata com’è mutata la realtà italiana. Si tratta del normale procedere dello sviluppo economico e sociale di un mondo che non tiene conto, anzi non prevede, né eventuali “isole felici” esistenti né possibili abitanti felici.
Domanda: Per quali ragioni si è messo a scrivere con Guccini – che più bolognese non si può – il cantautore della protesta e della speranza d’antan?
Conoscevo Francesco dagli anni sessanta, settanta perché di tanto in tanto frequentava, assieme ad altri studenti universitari, il Sanleonardo, una chiesa sconsacrata gestita dal GTV (Gruppo Teatrale Viaggiante del quale facevo parte). Lì sia lui che altri musicisti (Deborah Kooperman, per esempio) suonavano e confrontavano le loro canzoni.
L’incontro e la collaborazione letteraria con Guccini è stato un vero e proprio caso. Durante la presentazione di un mio romanzo (credo si trattasse di Coscienza sporca), Francesco mi raccontò la strana e misteriosa morte di un prete avvenuta in quel di Pàvana. Poiché lui non si sentiva un giallista, mi disse, avrei potuto utilizzare io quella storia per un romanzo giallo. Al colloquio era presente Antonio Franchini che ci propose una scrittura a due.
Sia io che Francesco ci abbiamo pensato un po’ prima di accettare perché nessuno dei due aveva mai scritto in coppia. Ci siamo parlati a lungo e alla fine…
Devo dire che il fatto di essere entrambi dei montanari, e della stessa valle del Reno, ha facilitato molto il nostro lavoro. Infatti veniamo entrambi dalla stessa cultura popolare e abbiamo identiche radici. Così almeno la vedo io. Per il resto, bisognerebbe sentire da Guccini.
Domanda: Bologna è anche una città colpita dalle stragi: Italicus e Stazione. Quanto peso hanno avuto nel Suo immaginario queste cronache luttuose e misteriose?
Anche quegli avvenimenti tragici fanno parte della mia cultura. Come fanno parte della mia cultura le lotte di piazza degli anni cinquanta e sessanta, le cariche della Celere sui gradini di San Petronio, le manganellate in piazza Malpighi, le lotte studentesche del sessantotto e successive e il passato delinquenziale, remoto e recente, di una città che, quanto a misteri insoluti, ha poche rivali in Italia.
Domanda: Antica università, bonomìa, buona tavola, corporalità, passione politica, asili-nido all’avanguardia nel mondo…queste le “cartoline” bolognesi sparse nei cassetti. In realtà in che città vive e scrive lei?
Vivo e scrivo in una città che amo, non corrisposto.
Ho indagato Bologna da cima a fondo, ho frugato nelle rovine del suo passato e mi illudo di aver intravisto un poco del suo futuro. Forse è questo che si deve fare per andare avanti. Ho indagato Bologna e ho scoperto che non è quella che sembra, non lo è mai stata. A questo proposito mi piacerebbe riportare il brano di un mio romanzo. Non diciamo quale e lasciamo il mistero, un altro fra i tanti. “Bologna è una strana città che, se ci guardi bene dentro, ti rendi conto che t’inganna. Ti illude di proteggerti sotto i suoi portici, come nel grembo di tua madre, e non ti permette di guardare dietro le quinte. Dove, appunto, accadono le cose più importanti. Solo in certe occasioni Bologna è costretta a mostrare il volto segreto.
Accade quando c’è da salvare l’immagine della facciata. […] Ci si dimentica di colpo che, quanto a cattolicesimo bigotto, questa città non è seconda a nessuna. Secoli di dominazione pontificia avranno lasciato un segno, no? Falsa cordialità, ipocrita gentilezza mascherata dalla cantilena del dialetto e dall’affettato arrotondamento di certe parole. O dalla secchezza di altre che vengono pronunciate solo quando ci si dimentica di essere cortesi. Insomma, un parlare da preti. D’altra parte, non è un caso che tutto, qui, si svolga come in una funzione religiosa. […]
Esattamente come nelle funzioni religiose, c’è sempre qualcosa di misterico nei fatti che riguardano Bologna; qualcosa di non detto, di nascosto dietro l’altare. Se ci fate caso, l’intera città è costruita come un altare. O un palcoscenico, che poi è la stessa cosa. Le quinte nascondono alla vista dello spettatore ciò che non s’ha da vedere. Cioè la commedia vera, quella che conta. E così, stupendi parchi si nascondono dietro facciate di antichi palazzi; botteghe piene di cose straordinarie e preziose si confondono nella penombra dei portici, visibili, ma con discrezione. […]
La città è costruita in modo da costringere lo sguardo ad altezza d’uomo, per obbligare a vedere solo ciò che è permesso: una lunga, interminabile sfilata di portici con i suoi pilastri o colonne; una teoria infinita di chiaroscuri che escono da antichi androni.
Niente a destra e niente a sinistra. Solo dinanzi.”
Domanda: A proposito di cantautori c’è una bella frase di Enzo Jannacci: “Quando si dice che è per principio, è per soldi”. E’ questa la “doppiezza” di Bologna che ha generato i mostri? Avere parlato di principi, di ideologia ed essere finiti nella totale mistificazione?
Sono perfettamente d’accordo con Jannacci, ma sono anche convinto che quando a Bologna parlavamo di principi e di ideologie, eravamo sinceri. Con Dozza uscivamo da una guerra tragica e dovevamo lavorare per tornare a vivere, per tornare a scoprire Bologna, a riconoscerci. Poi, superata l’emergenza, è tornato fuori il carattere dei bolognesi che per secoli sono vissuti grazie agli studenti, alle banche che quegli studenti sfruttavano, al commercio…Ma è solo dei bolognesi quel carattere? Io credo che appartenga in generale all’homus economicus che per secoli ha rappresentato, e rappresenta ancora, la massima aspirazione della nostra civiltà. Per cui, tutto è mistificazione, tutto è merce, tutto è convertibile in potere. Con tanti saluti a tutto il resto.