Intervista per la rivista on line Rossoegiallo
di Roberta Mochi
Cominciamo dagli esordi, sappiamo che è stato impegnato con il teatro, non solo come autore ma anche come attore: può raccontarci questa esperienza?
Raccontarvi la mia esperienza in teatro significa parlare di vent’anni di una vita. Un po’ troppo impegnativo e lungo per un’intervista. Diciamo che il teatro è stato il mio primo amore e, come si usa dire, non si scorda mai. Io l’ho tranquillamente dimenticato. Mi ha circuito, irretito con le sue arti magiche, il suo passato e le sue possibilità, mi ha promesso per tantissimi anni quello che mi aspettavo da lui e un bel giorno mi sono accorto che mi tradiva. Con tutti. Ma il peggio è che concedeva agli altri quello che negava a me. Ma il teatro politico, l’ho capito tardi, è fatto così.
Certo, è stata un’esperienza che mi ha lasciato moltissimo e che ancora utilizzo per il mio lavoro.
Con lui sono stato nelle piazze, nei cortili, nelle case del popolo, nei circoli culturali… Assieme abbiamo fatto e scritto cose straordinarie e mi ha fatto incontrare amici che ho ancora oggi. Diciamo che sono quello che sono grazie al teatro. E ancora gliene sono grato. Mi ha anche fatto capire che non ero fatto per recitare. Infatti, quando ero fra i protagonisti, il pubblico diminuiva giorno dopo giorno. Fino al giorno in cui i miei compagni di avventura non mi hanno pregato di limitarmi a scrivere i testi.
Il questurino Sarti Antonio è entrato nella storia del poliziesco italiano, vincendo tra l’altro il premio Tedeschi nel 1980 e passando allo sceneggiato nel 1978. È un personaggio eccentrico, eversivo, inetto e, con la sua colite, ricco di umanità. Come è nato?
È nato nel 1973 in un paese della Costa Brava, in Spagna, dov’ero in vacanza con Franca e Sabina, mia figlia di nove anni. Franca aveva dimenticato a casa i suoi romanzi gialli e si preoccupava per come avrebbe potuto dormire senza leggere, come sempre, un capitolo. Le proposi di scriverle io un capitolo di giallo ogni giorno, mentre lei era in spiaggia. Odio la spiaggia e il mare, come molti uomini di montagna.
Sarti Antonio è nato così, in un bar di Roses, da una stilografica e una risma di carta.
Tornati a Bologna, la stessa Franca batté a macchina il manoscritto e lo inviò alla Mondadori a mio nome. Mi rispose Alberto Tedeschi, direttore della collana gialla, e mi consigliò di inviarlo al premio Gran Giallo Città di Cattolica. Cosa che Franca fece. La giuria lo segnalò fra i tre migliori romanzi arrivati e il buon Claudio Savonuzzi, un giurato, che lo riteneva degno di pubblicazione, lo mise fra le mani di Raffaele Crovi. Il mio primo Sarti Antonio, sergente, uscì nella collana Calibro 80, diretta da Crovi, per l’editore Campironi.
La rosa e il suo doppio è un gioco narrativo ironico, abile e molto complesso. Decostruisce il progetto più popolare di Eco. Come mai una scelta così difficile?
Non la considero una scelta difficile. Mentre leggevo Il nome della rosa, mi veniva naturale appuntare a matita e ai bordi del volume, le cose che non mi convincevano. Intendo la parte investigativa. Ci ho pensato a lungo, diciamo dieci anni, perché toccare un monumento è un rischio serio, e poi sono partito. Il resto, la destrutturazione e l’analisi, sono venute naturalmente.
La parte più difficile non è stata scriverlo, ma riuscire a pubblicarlo. Poiché utilizzavo i personaggi di Eco, chiesi alla Bompiani, che ne deteneva i diritti, l’autorizzazione alla pubblicazione.
La lettera che mi scrissero in risposta, mi sconvolse per la cattiveria e per le minacce. Dovevo sapere, mi scrissero, che se avessi osato pubblicare, sarei stato citato per danni di miliardi.
Non mi arresi e andai a trovare Eco, che insegnava al Dams di Bologna, e nel percorso da via Guerrazzi alla stazione, unico tempo che Eco aveva da dedicarmi, gli parlai del mio lavoro e ottenni il suo intervento presso la Bompiani.
Gli pseudonimi esotici hanno caratterizzato il giallo spaghetti degli anni Quaranta, ma Jules Quicher è legato a testi come Funerale dopo Ustica del 1990, e Strage dell’anno precedente. Anticonformismo o semplice divertimento?
Funerale dopo Ustica e Strage, assieme a un terzo romanzo, Un triangolo a quattro lati (pubblicato poi in seguito da Mondadori), fanno parte di un preciso progetto editoriale che studiai assieme all’allora editor della Rizzoli Edmondo Araldi (detto Pallino). È, allo stesso tempo, un omaggio che volevo fare a tre avvenimenti drammatici della storia italiana. Non a caso Strage è uscito nel decimo anniversario della tragedia alla stazione di Bologna.
Erano i tempi nei quali gli scrittori italiani non erano in grado, a sentire i critici e gli editori, di scrivere romanzi gialli e tanto meno romanzi di spionaggio. Io ero e sono convinto del contrario e proposi all’editor di dimostrare la falsità di quelle affermazioni scrivendo tre romanzi con pseudonimo straniero. Quando i romanzi avessero avuto successo, cosa di cui non dubitavo, avremmo comunicato alla stampa il progetto sbugiardando così i detrattori degli scrittori italiani di genere. Pallino perfezionò l’idea costruendo un autore fantasma, Jules Quicher, (c’è anche una sua foto nella quarta di copertina) e dotandolo di un passato di uomo dei servizi di sicurezza di una multinazionale, al corrente di molte verità che rivelava attraverso i suoi romanzi.
Tratto da: http://www.sitocomunista.it/rossoegiallo/autori/macchiavelli.html