PER PAOLO BONDIOLI

Paolo Bondioli, detto Bond: uno di quei personaggi che si fanno voler bene al primo incontro. Uno di quei personaggi che hanno fatto cose importanti ma pochi lo sanno. Ce ne sono ancora, per fortuna.
Un trascinatore, un vulcano sempre in eruzione per produrre cultura.
Questo soprattutto, ma anche attore, viaggiatore instancabile, sempre alle ricerca di altro e altri.
Nell’esperienza teatrale ha recitato, disegnato manifesti e attaccati abusivamente di notte evitando le pattuglie della polizia che allora viaggiavano instancabili per le strade di Bologna. Ha costruito scenografie, portato in giro per l’Italia il camioncino del Gruppo Teatrale.
Anche il camioncino: un’idea sua. L’aveva trovato usato alla Citroen: “L’ho comprato” ci aveva detto. “E chi lo paga?” “Il GTV. Sono stanco di caricare e scaricare automobili.” Lo pagò il GTV con i pochi soldi che il teatro aveva fruttato.
Ma Bond è stato soprattutto uno che ci ha dato moltissime idee per spettacoli.
C’era sempre.
Le idee più impensabili e irrealizzabili con lui diventavano realtà.
“Domattina alle dieci abbiamo appuntamento con i rappresentanti del governo Vietnamita in esilio a Parigi.”
“Domattina alle dieci? Tu sei matto.”
Alle dieci eravamo davanti all’ambasciata vietnamita a Parigi: aveva una Citroen DS 19, un letto con le ruote, e aveva guidato tutta la notte. Dopo, abbiamo realizzato I pioli di Bach Dang sulla guerra in Vietnam.
Si è fatto aprire il museo Carnavalet, sempre a Parigi, dove si conserva la maggior quantità di materiale storico sulla Comune di Parigi del 1870. Era chiuso per lavori di restauro e ci hanno aperto.
Così è nato il testo Hanno dato l’assalto al cielo che il GTV ha rappresentato nel 1970 in occasione del primo centenario della Comune di Parigi.

Un giorno si presenta: “Dobbiamo fare uno spettacolo sui Fedayn e sul problema palestinese.”
“Bene, facciamolo.”
“Bene, allora partiamo.”
“Per dove?”
“Dobbiamo andare nei campi di addestramento dei guerriglieri e girare del materiale documentario…”
“Nei campi di addestramento? Sei matto.”
“Come matto? Pensa: saremo i primi al mondo a fare un spettacolo teatrale sulla guerra palestinese.”
Aveva ragione: Dario Fo e il suo spettacolo Fedayn è venuto dopo Paolo Bondioli.
Mi sono ritrovato in Siria e Libano con una macchina da presa a tracolla, a girare per Damasco chiedendo a destra e a sinistra come e dove trovare i rappresentanti della guerriglia palestinese e dove i campi di addestramento dei leoncini di Giordania. E a viaggiare in una camionetta, seduto su delle casse di dinamite, diretto ai campi di addestramento.
Così è nato il testo sui Fedayn Voglio dirvi di un popolo che sfida la morte, rappresentato in piazza Maggiore a Bologna.
Da solo non ci sarei mai andato, non mi sarebbe neppure passato per la testa.

Questo era il nostro Bond. Uno che aveva idee geniali e le divideva con gli altri. E se non eri convinto, ti convinceva con argomenti che non lasciavano spazio al dubbio.
Uno che voleva raccontare al prossimo ciò che sapeva o aveva scoperto.
Leggeva le poesie di Brecht molto meglio di Giorgio Strehler perché Paolo le aveva capite. Strehler non del tutto. A Paolo erano entrate nel sangue, a Strehler erano rimaste sulla pelle.
Con Bondioli ritrovavi il piacere della scoperta e del lavoro culturale, nel bene e nel male. E lui, il nostro Bond, sempre con il sorriso sulle labbra: “Cosa vuoi che sia? Ci divertiamo”, diceva davanti alla tua perplessità.
Avevi ragione, Paolo: ci siamo divertiti. In quanti della nostra generazione possono dire altrettanto?
Adesso Buon viaggio, Bond!
Buon viaggio nel mondo fantastico dove ti è sempre piaciuto viaggiare.
Prima o poi ti raggiungeremo, tutti noi compagni del GTV.

Loriano macchiavelli
28 – 2 – 2018

TEMPI OSCURI

Si riaffacciano tempi oscuri: pensavo non li avremmo mai più vissuti. La memoria non è una qualità degli italiani.
Il mio contributo alla lotta contro il fascismo montante è l’omaggio a un uomo che ha lottato perché io vivessi libero.

LA PRIMA VOLTA CHE HO INCONTRATO MIO PADRE.

L’ho incontrato che avevo tre anni e la sua immagine è piantata nella mia memoria e resta lì, visibile come una vecchia fotografia appesa con una puntina al muro di casa e che ti viene davanti ogni volta che socchiudi la porta d’ingresso.
L’ho incontrato che avevo tre anni. E prima?
Prima era disoccupato e un brutto giorno salì su un treno, lasciò Pioppe e sbarcò in Africa. Per lavorare. Andò a costipare, con una pesante mazzaranga, le massicciate delle strade dell’impero; andò a stendere asfalto sotto il sole africano; andò a segare a mano gli alberi lungo il tracciato delle vie volute da Benito Mussolini per la gloria dell’Italia nel mondo. Andò e intanto mangiava riso scondito. Per questo, tornato a casa, non ha più voluto vederlo nel suo piatto. Meglio cipolla e sale.
Eppure a Pioppe, alla canapiera, di lavoro ce n’era per tutti, dicevano. Non per mio padre e pochi altri. Quelli che non volevano mettersi nel portafogli la tessera del Fascio. Tre o quattro nella Pioppe di qua da Reno. Per dare qualche soldo alla famiglia, salivano sui monti a tagliare legna e a fare carbone. Ci stavano settimane e tornavano a casa che puzzavano di selvatico come animali. Una vita infame.
Un bel giorno si stancò, finse di credere a chi gli diceva, ogni volta che lo incontrava all’osteria per un bicchiere: “Ma va’ in Africa! Si guadagna bene. Stai via un paio d’anni, torni a casa pieno di soldi come un cane pieno di pulci e ti comperi la casa dove stanno i tuoi.” Ma loro, i caporali che arruolavano disoccupati per l’Impero, restavano a casa, col culo al caldo dentro la canapiera.
Lasciò Camugnone che io avevo un anno e mezzo e di lui non conservai memoria. Né ricordo la sua partenza, ma posso immaginarla. Mia madre, con me in braccio, lo accompagna alla stazione di Pioppe. Vanno lungo i binari che passano davanti a Camugnone. Mio padre porta la stessa valigia di cartone che gli vidi poi nella destra, al suo ritorno. Solo che al ritorno, la valigia era tenuta assieme da due spaghi. L’Africa si era preso, oltre che la salute di mio padre, anche le due chiusure a scatto della sua valigia.

Poi un giorno, questo lo ricordo e oggi so che era passato più di un anno da quando mio padre se n’era andato, un giorno mia madre mi dice: “Oggi pomeriggio arriva il babbo”.
Il sole è già tramontato dietro la collinetta che sta davanti all’osteria. A Camugnone il sole tramonta presto. Mia madre mi lava, mi asciuga, mi pettina, mi veste di nuovo come la domenica, mi prende per mano e usciamo di casa. Ci sediamo sul muretto della piccola passerella, mia madre ha gli occhi fissi sul passaggio a livello e io guardo le anitre giù, nel cortile del contadino. Poi:
“Ecco, quello è il babbo.”
L’uomo che è spuntato dalla siepe che divide i binari dai campi, e sta immobile, in piedi subito passato il passaggio a livello, è alto come un gigante… O sono io che lo ricordo così.
Ha una valigia nella destra, il viso coperto da una barba nera, nere ha le mani e la poca pelle del volto che la barba lascia scoperta. Rivedo perfettamente gli occhi. Lucidi e brillanti. Adesso so che era per la febbre. Malaria. L’ho visto per mesi e mesi, dopo, sul letto, scosso da brividi che non se ne andavano, nonostante i tanti panni che mia madre gli metteva sopra.
La malaria è fatta così: ti prende alla sprovvista e se ne va quando ne ha voglia.
“Corrigli incontro e abbraccialo.”
Non sono corso e non l’ho abbracciato, quell’uomo nero che non conoscevo. Ho nascosto il viso nella sottana di mia madre. Ma non ho pianto quando l’uomo nero mi ha sollevato, mi ha stretto e mi ha baciato.
Ho imparato a volergli un gran bene a quell’uomo che non era né nero né alto. Ma forte come un gigante e con un cuore grande come una casa.

Mio padre era tornato dall’Africa. Qualche soldo ce l’aveva in tasca. Abbastanza per venire pari con i debiti di anni di disoccupazione. La mia famiglia continuò a pagare l’affitto di uno stanzone dove eravamo sistemati in quattro, al piano terra di Camugnone, entrando, la terza (o era la seconda?) porta a sinistra nell’enorme corridoio. A destra, sempre nel corridoio, una scala per il primo piano e, sulla parete di fondo, in una nicchia, la Madonna e il Bambino. In maggio, sempre una candela accesa. E la sera, in quel corridoio, il rosario. Ognuno si porti la sedia da casa.
Mio padre non partecipava al rosario: era tornato sui monti attorno a Pioppe a tagliare legna e a fare carbone assieme ai tre o quattro che non volevano mettere nel portafogli la tessera del Fascio.

Questo era mio padre.
E io? Che farò, se sarà necessario?